SAREMO (anni 70)

Lo chiamavano varietà By Tobia Teardo

Disegni di Massimo Manzali


10 minuti di lettura 



ANNI 70

 

Un giorno del 1970 tal Mario Girotti si reca dal regista e sceneggiatore Enzo Barboni con una proposta rischiosa. Mario è un giovane attore apparso in pellicole di second ordine ed è stato scelto per recitare in una pellicola di Barboni dopo che il grande Franco Nero aveva rifiutato la parte. L’occasione era ghiotta ma Mario aveva una pretesa: voleva che anche il suo amico Carlo Pedersoli facesse parte del cast. Una richiesta che sapeva quasi di ultimatum, per la quale era facile perdere l’opportunità di lavorare ad un progetto ghiotto che poteva cambiare la carriera. 

Ma fortunatamente Enzo Barboni accettò. Conosceva già Pedersoli per i suoi successi sportivi e lo aveva visto in qualche filmetto: un omone di due metri dagli occhi stretti e dal fisico massiccio. Sarebbe stato divertente accostarlo a Mario Girotti, mingherlino, fulvo e dal volto scolpito.

Nacque così: “Lo chiamavano Trinità”

Erano anni di grandi cambiamenti, nel cinema e nella musica, il mondo appariva comunque instabile e pauroso ma l’umanità si stava abituando al caos e voleva costruire un impalcatura rassicurante, fatta di arte e sperimentazione , di lotte e di conquiste per sopperire al costante pericolo di un Armageddon nucleare o del terrore della perdita dei diritti.

Mi sembra significativo, perlomeno romantico, che in questi anni nascano quasi tutte le icone e i miti del '900 e appare ancor più pregnante il fatto che l’Italia si fosse lanciata all’inseguimento della contemporaneità con grande passione pur invischiata nell’incertezza di governi instabili, terrorismi oscuri e le animosità degli scioperi.

Bud Spencer e Terence Hill sono stati questo: una modo per accostare il dramma della fatica e del terrore quotidiano alla risata corposa e saporita che ridava valore alla vita.

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Sanremo no. Sanremo era la solita poltiglia. Nel 1970 vinse la coppia Celentano-Mori con “Chi non lavora non fa l’amore”, un inno retrogrado per una società che faceva fatica a stare al passo con le grandi lotte femministe e sindacali. Celentano canta una motivetto qualunquista mascherato da vaga critica sociale che ascoltata dalle orecchie dell’uomo del 2000 fa rabbrividire per la totale mancanza di sensibilità per temi oggi imprescindibili. Ed in pieno autunno caldo, per giunta. Un orrore. Ma alla gente piaceva.

L’anno successivo, invece, è spettacolare. In gara ci sono i Ricchi e Poveri, finiti in seconda posizione con “Che sarà”, e Nada che canta “Il cuore è uno zingaro” di Nicola di Bari che si classifica primo.

Entrambe ottime prove canore. Ma gli applausi sono tutti per il sommo Lucio Dalla, un Nano delle montagne con una voce da usignolo, di classe compositore supremo livello 20, in gara con 4/3/1943 un brano mistico e speciale che parla di tutto e parla di lui, in una fusione di musica e parole, ermetica e saporita, lirica al punto da essere eguagliabili soltanto da un Montale o un Saba.

Da quel momento fino al '78 Sanremo è cacca fritta.

Sembra quasi che il Festiva subisca un’involuzione. Alcune canzoni, tolti certi moderni arrangiamenti, subiscono le stesse morbose sonorità degli anni 50.


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Nel 1972 vince Nicola di Bari con “I giorni dell’arcobaleno”. Uno sbadiglio di 3 minuti con assolo di pianto finale.

Mantiene lo standard soporifero Peppino di Capri, l’anno successivo, con “Un grande amore e niente più”.

Peppino di Capri e Nicola di Bari erano nemici giurati. Peppino di Capri è nato a Capri mentre Nicola Di Bari non è nato a Bari ma a Zapponeta, una frazione di Manfredonia. I due si distinsero subito per le inesistenti doti canore, infatti nei loro brani erano soliti camuffare questa mancanza utilizzando un furbo espediente: la parlata ritmata. Nicola era un esperto nel rendere sgradevole ogni cosa cantasse mentre Peppino era soprattutto noto per non avere assolutamente nessun talento.

Si scontrarono la prima volta alle Olimpiadi della noia nel 1965 svoltesi quell’anno a Cippa Majore un Paesino in provincia di Oderzo dove non succedeva mai nulla e i vecchietti del paese si riunivano una volta ogni 5 anni per decretare la cosa più pallosa del mondo.

Il gran favorito era Gino, il suonatore di triangolo elettrico. L’anno prima aveva convinto la giuria con il celeberrimo: “colpo singolo del triangolo” con il quale sbaragliò la concorrenza. In gara c’era anche Mauro con l’opera in sedici volumi “Non c’ho voglia” e Assunta che interpretava “Accarezzamento di topo ghiro”.

Eppure Nicola e Peppino seppero dire la loro. Passarono le fasi eliminatorie e approdarono in finale.

Nicola portava “Chitarra suona più piano” mentre Peppino cantava “E mò e mò” una sinfonia dance super triste. Fu una sfida emozionantissima e alla fine trionfò il signor di Capri che dedico la vittoria al suo cappotto.

Da quel momento la faida  fra i due non ebbe più fine e si fece sempre più cruenta. Ma essendo due noiosi non accadde mai nulla degna di nota. Fine.

Percorriamo velocemente le edizioni del festival del 1974 e 75 vinte rispettivamente da Iva Zanicchi con “Ciao Cara come stai” scritta da Cristiano Malgioglio e da Gilda con “Ragazza del Sud” di cui era anche autrice.

Nel 1976 torna in piena forma Peppino di Capri deciso a riprendersi lo scettro della noia. Ci riesce con “Non lo faccio più” (e per fortuna, direi io). La forza distruttrice di questa canzone è paragonabile a quella di un uragano di sbadigli. La performance di Peppino è incerta e soporifera, la gente in platea si aspetta che qualcosa succeda, magari che la canzone inizi. Non poteva essere solo quello. Non poteva. E invece si. Nel frattempo i Pink Floid pubblicavano “The dark side of the moon”, nascevano i Sex Pistol, gli AC/DC e i Kiss.

C’erano Springsteen, i The Who, I Genesis i Led Zeppelin e molti altri. Facevano capolino i Queen, David Bowie, i Black Sabbat. Noi avevamo Nicola di Bari e Peppino di Capri.

Fortunatamente su circuiti diversi, più virtuosi ed impegnati gareggiavano altri mostri sacri della musica italiana. Vale la pena ricordare De Gregori, Mia Martini e Lucio Battisti. Ma anche la Premiata Forneria Marconi, i Delirium, Banco del Mutuo soccorso e molte altre divinità del rock progressivo italiano.

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Sanremo continua male anche con la vittoria degli Homo Sapien con “Bella da morire” nel 1977.

A svecchiare la tristezza sanremese ci prova nel 1978 un giovane aitante, sfacciato ed intelligente, la versione eccentrica di Slash, il chitarrista dei Gun’s N Roses, ovvero il fantastico Rino Gaetano.

Il nostro Rino si presenta sul palco con 3 oggetti del potere: una tuba regalatagli da Renato Zero, delle scarpe donate da Raffaella Carrà e un anello per domarli e nel buio incatenarli. Cantò “Gianna”. Un pezzo strano. Diverso. Rino sa cantare e sa interpretare. Ha il tono giusto per rendere sofisticato anche l’elenco del telefono. Si classifica terzo dietro ad Anna Oxa e Matia Bazar. Ma rimarrà il vincitore morale.

Il ciclo finisce nel ‘79 con la vittoria di Mino Vergnaghi con “Amare”. Che dire. Canzone perduta ma superba. Grido anticonformista, rauco e disperato lanciato oltre i vincoli di una società ottusa e borghese. Fragile e “vitalmente moritura”. Come gli anni 70.

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